Bruggi

Perla della Val Curone

La vita in montagna dal medioevo fino agli anni 60’

 

L’origine dei vari paesi  situati sul ns. appennino  è molto incerta  date le poche informazioni scritte che ci sono giunte, in particolare sono pochissime quelle databili prima dell’anno 1000. Data la vicinanza con il sito archeologico di Guardamonte databile alcuni millenni a.c, è presumibile che l’alta val Curone fosse già abitata in epoca remota.

Geograficamente è uno dei passaggi più utilizzati nel passato per le carovane, per lo scambio di merci  dalla val padana  verso la Liguria. Prima della costruzione delle varie strade carraie il commercio avveniva  sui sentieri  a dorso di mulo, sentieri che spesso seguivano i dorsali dell’appennino. Le varie carovane di muli trasportavano verso Genova i cereali, soprattutto grano, proveniente dal piacentino,  frutta e vino custodito in pelli di pecora, merci provenienti dalla pianura o dalla bassa collina; dall’alta valle proveniva invece il carbone, autoprodotto, e qualche formaggio. Al ritorno i muli trasportavano il sale, pesci essiccati, olio e mercanzia varia dalle stoffe agli attrezzi agricoli.

Dal primo millennio, nonostante la vita molto dura, le malattie le guerre,  i paesi  hanno gradualmente incrementato gli abitanti fino a toccare la massima densità nei primi anni del 1900. Dai racconti degli anziani, Bruggi, aveva già dei numeri civici anche senza il nome delle vie, a ogni nucleo famigliare un numero,  il paese si stava espandendo verso l’alto e pare che le ultime case in alto avessero un numero superiore a 100. Le famiglie erano molto numerose data la presenza di  molti figli e degli anziani che allora non avevano la pensione  e possiamo supporre quindi che il paese contasse più di 500 abitanti a fine 1800.

Dal dopoguerra i paesi sono stati gradualmente  abbandonati e la densità abitativa oggi è tornata indietro di 1000 anni.

Per meglio descrivere la vita in montagna, che  è rimasta quasi uguale per centinaia di anni,  analizziamo i vari aspetti  e le varie attività che la condizionano.

Le varie famiglie, o  per meglio dire i vari gruppi famigliari, erano numerosi in quanto  erano presenti i genitori anziani, i coniugi dei figli e, data l’elevata mortalità, i vedovi e le vedove sorelle, fratelli, nuore e tanti bambini. Vivevano di agricoltura e allevamento; dalla prima si ricavavano  prevalentemente  i prodotti per l’alimentazione della famiglia, venivano prodotti dai 5 ai 10-12 q. di grano, per famiglia,  che macinato localmente dava la farina per il pane e la pasta di tutto l’anno, granoturco, fagioli, patate, verze, pochissima frutta spesso selvatica o quasi. Dall’allevamento si ricavavano gli animali per il traino delle “lese” e qualche capo era venduto per ricavare un po’ di soldi necessari a comprare quanto non era possibile auto produrre. Raramente veniva consumata carne dei bovili o ovini allevati, questi venivano tutti venduti,  solo quando qualche capo moriva  o doveva essere abbattuto se ne consumava la carne, altrimenti l’unica carne usata per alimentazione era il pollame ma anche questa con molta parsimonia.  Le famiglie più facoltose  potevano permettersi di allevare un maiale, più spesso acquistato  e allevato in società fino a fine anno  quando veniva macellato, tutto veniva utilizzato anche il grasso  conservato in vasi e utilizzato per condimento o le cotiche utilizzate per fare la panissa o il brodo. Con il latte erano prodotti  formaggi (smasò) messi a stagionare nelle cantine, l’igiene era approssimativa ma il gusto ottimo.

Autarchia: la parola ci fa ricordare il ventennio ma sui ns. monti era praticata da centinaia di anni. Nelle varie comunità tutto quanto era possibile era prodotto; Per la costruzione delle case si usavano sassi  locali; qua e là vi erano varie cave di sassi che pochi per volta venivano trasportati in paese; il cemento non era utilizzato, si utilizzava la calce prodotta cuocendo (nelle “furnose”) e frantumando  particolari sassi. Le coperture dei tetti erano in “ciaple” o “ciapele” cioè sassi sottili e larghi che sistemati consentivano di riparare la casa dalle precipitazioni, anche per le ciaple vi erano cave o luoghi dove trovare le migliori, Il legname da costruzione e opera era locale ed era costituito da faggi, frassini, ciliegi selvatici (“gangiò”) carpini e roveri noci e maggiociondoli (“asburni”). Le conifere oggi molto diffuse come abeti, pini e larici  sono stati introdotti nel 900 per rimboschire le numerose pietraie; si sono sviluppate molto bene ma secondo i vari progetti naturalistici sono destinate a creare l’ambiente per la crescita della pianta locale per eccellenza: il faggio.

Ogni paese era attrezzato con un mulino e con una segheria, i mobili erano prodotti localmente dagli abili falegnami, le sedie prevalentemente in ciliegio gli altri mobili in noce o rovere. Una curiosità riguarda il tavolo,  l’arredo domestico più scontato;  prima del 900’ molte case ne erano sprovviste, esisteva sì la “meisdra”  dove era custodita la farina e il pane che una volta chiusa era simile ad un tavolo anche se un po’ più alto, ma non il tavolo. Se visitiamo le tante case abbandonate sull’appennino spesso ci capiterà di trovare una stanza con una panca in muratura tutta intorno, era la camera da pranzo- cucina dove i cibi venivano cucinati poi versati nei piatti o più spesso scodelle, ogni commensale prendeva la sua e si sedeva sulla panca in muratura a mangiare, tenendo il piatto o la scodella sulle ginocchia, ho visto fare questo da persone anziane ancora negli anni 60’ 70’ nonostante il tavolo fosse ormai presente da decenni.

Come per il tavolo anche la stufa non era così scontata, prima delle “moderne” stufe in ghisa si utilizzava il camino ma nelle case più antiche o più povere anche questo non era presente. Nelle giornate più fredde o per cucinare era acceso un fuoco in un braciere al centro della stanza, il fumo passava fra le fessure del tetto lasciando le travi sottostanti nere e affumicate, così protette dalle tarme, entrando in certe case abbandonate si possono ancora osservare i sottotetti affumicati, una di queste era ancora visibile pochi anni fa sotto Negruzzo in un pianoro detto “Rivinasa” appena sopra Pianostano. Pare impossibile ma anche la legna scarseggiava, le faggete erano usate per fare il carbone e per bruciare si raccoglievano tutti gli scarti e le ramaglie derivanti dalla pulitura dei vari “ersi”. Per scaldarsi si andava nelle stalle che raramente erano più alte di 2 metri spesso interrate o seminterrate  senza finestre, qui il fiato degli animali contribuiva a elevare la temperatura ambiente. Nelle stalle ci si riuniva a “Vgiò” cioè a passare le lunghe serate invernali dove era divulgato il gossip locale. Molte persone non  si erano mai allontanate dalla valle e quando qualcuno era ritornato da un viaggio magari solo a Voghera, poi per molte sere aveva da raccontare ogni volta aggiungendo un ricamino. Si racconta di un giovane che era partito per il militare e passato Volpedo abbia detto “ èla ancù Italia queachì?”.

Si mangiava quello che si era prodotto, e si produceva soprattutto quello che era possibile conservare, ad esempio le verdure non erano molto numerose, soprattutto erano coltivate fagiolane, verze e patate tuttavia il prodotto principe con il grano era la meliga (che oggi preferiamo chiamare mais o granoturco), da cui si ricavava la farina e quindi la polenta. Più pasti la settimana erano costituiti da polenta, modesti i condimenti, in prevalenza formaggio locale, qualcuno la mangiava intingendola nel latte e per chi se lo poteva permettere nel vino. Ovviamente  si trattava di un piatto unico. Nonostante fosse estraneo all’habitat locale era utilizzato il riso, ci risulta che già nei primi anni dell’800 e forse anche prima vi fosse una migrazione stagionale, ma solo per lavoro, verso la lomellina e il vercellese per la monda (attività che occupava quasi esclusivamente ragazze) e il raccolto e la trebbiatura ed essicazione del riso (dove partecipavano soprattutto gli uomini). Una parte della paga per detti lavori era costituita da un sacco di riso che portato a casa doveva durare fino alla successiva stagione, si spiega così la diffusione della “panissa” piatto tipicamente vercellese nei nostri paesi. Come condimento si utilizzava soprattutto il burro, chi aveva allevato il maiale aveva anche il lardo o il grasso di maiale sciolto e conservato in vasi (non certo per palati raffinati), dalla Liguria giungeva qualche bottiglia di olio e il sale ma poiché si trattava di merci che bisognava comprare l’uso era molto parsimonioso.

Da impianti attuali si è appurato che la frutta è coltivabile anche a 1000 metri ma questa in passato era scarsamente consumata, si raccoglievano le pere selvatiche, minute e durissime, i gangiò, piccole ciliegie spontanee, alcune qualità di mele selvatiche o quasi come ad esempio le mele “carle”, si raccoglievano le noci  da piante spontanee. Qualcuno aveva provato ad innestare o piantare mele o pere provenienti da  valle pare che avessero attecchito ma invece di fare altrettanto nottetempo  qualcuno avesse tagliato gli alberi,  in ogni paese vi sono storie simili.

Gli antibiotici  e l’aspirina non erano ancora stati inventati, e anche dopo bisognava comprarli così  anche per curarsi si utilizzavano rimedi autarchici, ogni famiglia in cantina aveva appesa una “sonsza” che più era vecchia e meglio era, cioè un arrotolato di grasso di maiale che strofinato sulle contusioni o le parti doloranti talvolta dava effetti benefici, bastava abituarsi all’odore. Altri rimedi erano ricavati dalle piante medicinali  che qualcuno già conosceva; erano già conosciuti gli effetti benefici dell’arnica e delle radici di genziana, ma il rimedio più usato per tutte le malattie era il “segno”, una specie di intreccio fra religione alchimia e magia cui tutti però ricorrevano. In ogni paese c’era chi sapeva segnare il mal di testa, chi aveva il segno per i vermi così per la nausea ecc. Il segno solitamente consisteva in una serie di croci o  ghirigori vari fatti con le dita unte o meno, sulle parti doloranti o sulla testa, sempre accompagnate da orazioni da ripetere, se il male era di quelli che sarebbe guarito  comunque il rimedio funzionava, è passato del tempo ma  anche oggi  omeopatia, stamina ecc. ecc.  non hanno effetti diversi.

Taluni più di altri avevano fortuna e si erano creati  una grande notorietà che andava oltre i confini dell’abitato e così arrivavano dai paesi vicini malati a “foase sgnò”.

Agricoltura e allevamento: da una vista alle foto dei paesi del  primo 1900 si nota un paesaggio molto diverso da quello attuale, la vegetazione è molto  rada, si notano molte pietraie ma soprattutto si vede un paesaggio  molto simile a quello ligure con terrazzamenti, muretti fra un terrazzamento e l’altro e  anche il più piccolo terreno risulta lavorato e coltivato questo spiega come mai solo a Bruggi potevano vivere oltre 500 persone. In primavera appena via la neve tutto il paese dedicava ca. dieci giorni alla sistemazione delle strade, uomini e donne vi partecipavano, si provvedeva alla sistemazione dei danni causati dall’inverno e dalle piogge, tutte le strade che oggi chiameremmo interpoderali, cioè le strade atte al transito di due buoi o mucche trainanti una “lesa” o un “gabiou”, erano lastricate. Si piantavano due picchetti di legno uno sul lato destro e uno sul lato sinistro della strada, contro questi veniva appoggiato orizzontalmente perpendicolare rispetto alla strada, un piccolo tronchetto di legno, preferibilmente d’ “sburnu” in quanto molto duro che non marciva, e sopra il legno venivano sistemati sassi uniformi. Si partiva dal basso e si saliva interrompendo  di tanto in tanto con un nuovo tronchetto di legno e così via. Terminata la sistemazione delle pietre si riempivano le fessure fra i sassi con terra, se il lavoro era fatto bene l’acqua scorreva sui sassi senza danneggiare la strada. Alcuni mirabili esempi di lastricato li possiamo ancora oggi  osservare sopra Cartasegna in val Borbera o meglio a Tartago in val Boreca lungo la vecchia strada per il monte Alfeo, qui oltre al lastricato lungo oltre 1000 metri ancora integro è ancora presente il muretto laterale a secco.

Fino agli anni 60 tutte le strade che dai paesi salivano ai pascoli erano ancora tutte lastricate oggi ne rimane solo qualche traccia. A fianco delle strade vi erano le “terre” piccoli terrazzamenti lunghi e stretti dove era coltivato il grano, il mais, l’avena, le patate i fagioli ecc. Il proprietario del terreno solitamente lo cintava con arbusti e spine era suo dovere anche tenere in ordine l’ “ersi” sottostante il terreno per evitare che questo franasse. Solitamente nei vari “ersi” non vi erano alberi  perché il sole doveva essere sfruttato a pieno.

Quando andiamo a camminare dal paese fino ai 1300 metri ca. di altitudine, diamo un’occhiata nel sottobosco e noteremo spesso il terreno non è in pendenza  ma vi sono delle strisce di terra pianeggiante, una scarpata e un’altra striscia di terra pianeggiante questo significa che una volta erano terre coltivate.

Vi sono stati anni che per le cattive condizioni atmosferiche il grano non è maturato con le prevedibili conseguenze,  in seguito grazie alla selezione delle sementi era  stato trovata una qualità più precoce che aveva risolto il problema ma la fine era già iniziata. A guardia delle terre coltivate una o più persone che da punti strategici osservavano le culture e quando mucche o vitelli vi entravano rompendo la cinta suonavano un corno. La ricchezza di una famiglia si misurava dal numero degli animali posseduti. Occorreva avere almeno due mucche per trainare le slitte, chi ne aveva quattro o sei (2 o 3 cubie) era considerato ricco.

Erano pochi che utilizzavano i buoi, anche se più robusti delle mucche,  non davano né latte né vitelli e la tipologia dei terreni non ne giustificava l’utilizzo. Più frequente era invece l’allevamento di alcuni capi di ovini come capre per il latte o pecore per il latte e la lana. Era allevato qualche asino, animale con modeste esigenze con cui era possibile trasportare legna, carbone e ogni tipo di mercanzia. I trasporti di grandi quantità di merci erano fatti con i muli; spesso i muli venivano utilizzati per viaggi che duravano più giorni come quelli verso la Liguria, o per il trasporto del carbone prodotto nelle carbonaie, verso la Liguria o verso la val padana, per il trasporto della legna e altro. Solitamente chi eseguiva i trasporti con i muli aveva più animali e l’appennino era percorso da numerose carovane composte di una persona a piedi  “muratè” seguiti da una colonna di quattro  o sei animali carichi. Lungo i vari percorsi vi erano dei punti di sosta dove pernottare e ricoverare gli animali. Il paese di San Sebastiano Curone è sorto intorno ad uno di questi punti, lungo l’itinerario che dal piacentino portava a Dernice e poi verso Genova. Il cavallo era un genere di lusso che pochi potevano permettersi e non in tutti i paesi ve n’era uno. L’unica carne che si consumava era quella del pollame ma solo a Natale,   Pasqua e feste importanti o per il brodo agli ammalati, le uova erano vendute e in parte consumate, mi è stato raccontato che si andava nella bottega con le uova per avere o un sigaro toscano o il trinciato forte (le dipendenze di allora).

I mezzi di trasporto erano di produzione propria,  la ruota era poco utilizzata si usavano soprattutto slitte, diverse a secondo dell’uso tutte a traino animale. Per portare via il letame se ne usava una più piccola, sui due sci era posata una cesta  di rami di nocciolo o salice intrecciati, era lunga circa 1,5 mt. e larga ca. un mt. alta ca. 30 cm, era usata per trasportare il letame nelle terre, portare a casa sassi, e altri oggetti di piccole dimensioni ma pesanti. C’era poi la lesa vera e propria, un po’ più grande della prima lunga ca. 2 mt., non aveva la cesta   ma nella parte anteriore e posteriore vi erano 2 legni curvi verso l’alto per evitare che la merce cadesse dietro o avanti, era usata per il trasporto della legna, del grano delle fascine del granturco  ecc. Infine vi era il “gabiou” o “gabion” , in pratica una “lesa” su cui era costruita una ringhiera in pioli di legno curva nella parte anteriore e dritta in quella posteriore, veniva usata per trasportare soprattutto il fieno dai prati fino alla cascina. Vi erano poi le gabbie per il “fujasu” usate anche per l’erba, delle dimensioni della ruota di un grande camion  in rametti di salice intrecciati con un foro centrale, solo da una parte rotondo attraverso cui si schiacciavano dentro le foglie o l’erba, queste veniva portato a spalla.

Pascolo: appena nasceva la prima erba, dopo  che la neve si era sciolta,  gli animali verso le ore 6-7 del mattino erano fatti uscire dalla stalla e accompagnati sui pascoli montani,  circa un’ ora – un’ora e trenta di strada, chi partiva prima poteva lasciare le mucche nel primo prato agli altri toccava man mano salire di più, il compito era svolto quasi esclusivamente dai ragazzi, o meglio dai bambini in quanto già a 5 o 6 anni avevano tale compito. Portate le mucche e i vitelli al pascolo i “vacò” (cowboys se fossero nati in America) tornavano in paese e andavano a scuola, ma solitamente quando iniziava l’alpeggio le scuole erano finite o stavano finendo. Nel pomeriggio verso le 15 risalivano ai pascoli e dovevano cercare le mucche che nel frattempo spesso avevano fatto vari  Km., si affinava così l’udito ascoltando i campanacci che ogni animale aveva al collo, cercando di capire in quale direzione andare; talvolta capitava di non riuscire a trovare i propri animali, così intervenivano gli anziani o gli altri ragazzi, ci si aiutava insomma.  Radunato il bestiame, si accompagnava verso il paese cui si giungeva fra le diciotto e le diciannove. Il passo degli animali al ritorno era più veloce (anche perché era discesa) e per questo ancora oggi può capitare di sentire dire di persona lesta “ u và cmè  na vaca versu a stala”. Sui pascoli montani si trovavano non solo i propri paesani ma anche quelli saliti da altre frazioni e da altri versanti, il campanilismo allora era molto sentito ed esistevano rivalità molto forti fra paese e paese le cui origini talvolta non si conoscevano neanche più. Un dispetto molto diffuso era quello di  rubare  i campanacci delle mucche degli altri paesi ma i pascoli erano molto affollati e capitava di essere scoperti e severamente pestati; un dispetto meno grave era riempire di fieno i campanacci così il proprietario prima di trovare le proprie mucche doveva girare parecchio.

Fra giugno e luglio quando l’erba era bella e rigogliosa, iniziava la mietitura del fieno “andò ins l’oerpu” (andare all’all’Alpe) a “sgò” (tagliare lerba) nei pascoli, ogni famiglia aveva i suoi “quorti” (quarti) che ci si premuniva che non venissero pascolati prima del taglio dell’erba. L’attività era esclusivamente maschile, gli uomini  si attrezzavano con le falci che in precedenza avevano martellato (si posava la lama della falce su di un particolare ferro e poi si davano delle martellate sul filo della lama per renderla più sottile e tagliente); salivano sui prati che era ancora buio e alle prime luci iniziavano a falciare, una breve colazione di pane e formaggio verso le 9 poi fino alle 12 si falciava. Nel periodo dell’alpe ai ragazzini che avevano accompagnato le mucche al pascolo, toccava un altro incarico: portare all’alpeggio il pranzo agli uomini. Verso le 11 era dato loro un “pantou” che  per decenni è stata la borsa comune a tutti anche nei paesi più a valle, cioè un fazzoletto quadrato di ca. 1 -1,2 mt. di lato rigorosamente blu con qualche riga bianca che formava quadri. Dentro c’era  il pranzo costituito da un po’ di pane un po’ di vino un pezzetto di formaggio e solitamente pasta asciutta, panissa ecc. A qualche sventurato era dato qualche volta il brodo, ma il contenitore non era stagno al massimo vi era un coperchio adattato. I destinatari del brodo erano più a rischio fame degli altri. Ci si radunava sotto un’ombra e si pranzava sull’erba,  tutti insieme. L’acqua era di sorgente tenuta all’ombra in un fiasco o nella “barleta” (botticella di legno contenente 3 o 4 litri, fatta come una botte). Nel pomeriggio giungevano anche le donne che rastrellavano il fieno tagliato nei giorni precedenti e già seccato, quello pronto era caricato nei “gabiou” e pressato con le mani in modo che non si perdesse lungo la strada. Verso sera le mucche venivano “zsoncie” con il giogo e  trascinavano il fieno verso casa. L’alpe durava circa un mese dopo di che  si poteva pascolare  su tutti i prati.

I ragazzi che non erano impegnati a rastrellare avevano il pomeriggio libero e si dedicavano a giocare; uno dei  giochi era una specie di giostra. Era piantato un palo in un prato possibilmente piano questo era lasciato alto circa 1 metro e appuntito in alto; si tagliava quindi un altro palo e con i mezzi disponibili  si faceva un incavo o un foro al centro che veniva posizionato sul primo, ecco fatta una giostra a 2 posti. Altro gioco più complicato era la “lippa” più a valle conosciuta anche come  “cirimella”  costituito da un pezzetto di legno di ca. 15 20 cm di lunghezza  con la punta da entrambi i lati; ci si attrezzava con un  “bacu”  una specie di manganello con cui si picchiava su di una punta della lippa, questa si saltava su a questo punto occorreva un’altra mazzata quando era in aria per lanciarla lontano. Le regole del gioco ricordano vagamente il baseball.

Il fieno era stato trasportato nelle cascine e accuratamente “inguarò”, con la poca paglia doveva bastare per nutrire le mucche durante il lungo inverno, ma la paglia era poca e non poteva essere sprecata per il letto degli animali, per questo erano usate le foglie di faggio. Fra ottobre e novembre bisognava andare a “fujasò”, ci si recava nei boschi di faggio, si rastrellavano le foglie, si schiacciavano nelle gabbie di salice e a spalla si portavano a casa e si gettavano nella cascina, il compito era prevalentemente femminile.

Come anzi detto, accompagnare al pascolo le mucche era compito dei bambini o dei ragazzini, ma c’ erano famiglie di persone più anziane dove non c’erano bambini è nata così l’attività dei “vacò”. Le famiglie con molti figli mandavano uno o più di questi “a fo è vacò” presso un’altra famiglia, spesso di parenti talvolta anche in paesi vicini. Presso la nuova famiglia i ragazzi si occupavano di accompagnare le mucche al pascolo e riportarle in stalla la sera, per tale compito, che durava fino all’autunno, i bambini erano remunerati con un paio di pantaloni (o gonna giacché era svolto anche dalle bambine) una camicia e un paio di scarpe, qualche volta le paia erano due, lo scopo principale, per i genitori, era quello di avere una bocca in meno da sfamare. L’usanza  era diffusa in tutto l’appennino sia in val Curone che in val Staffora e ricordiamo che i bambini spesso venivano mandati a “fo e vacò” che avevano sei  anni.

Strade: la rete stradale così come la conosciamo oggi è abbastanza recente, tutte le principali strade che collegano i paesi dell’appennino a valle  sono databili fra il 1900 e la 2° guerra mondiale; prima, quando la popolazione montana era circa 100 volte quella attuale, i collegamenti stradali erano diversi,  oggi  notiamo strade che salgono  gradualmente sui versanti delle montagne, con una pendenza graduale  ma costante, originariamente sterrate e in seguito asfaltate. Prima del 1900, data la numerosa popolazione che viveva sull’appennino, esistevano strade di fondovalle che spesso fiancheggiavano i corsi dei fiumi, tutte curate con muri  a secco, numerose curve poiché si seguivano le anse dei fiumi con piccoli ponti, larghe quanto bastava per il transito di un carro a trazione animale; piccoli tratti di queste strade sono ancora oggi visibili  lungo il torrente Borbera, Agnellasca, Carreggino e lo Staffora.  I paesi erano alcune centinaia di metri in alto sui versanti delle montagne, ogni paese aveva una strada che, supponiamo una volta fosse in selciato, poco più larga di una mulattiera che scendeva con tornanti e tratti molti ripidi, fino alla strada di fondovalle, salvo poche eccezioni la rete stradale era strutturata in tutte le valli. Le strade che collegavano il fondovalle ai paesi,  essendo all’epoca molto utilizzate e curate, si sono conservate e ancora oggi si possono vedere. In val Borbera la strada che dal Carreghino sale a Carrega, ancora conservata con il selciato nel tratto più a valle, sul versante opposto quella che sale a Chiapparo; la vecchia strada che dall’Agnellasca sale a  Campassi da un lato e a Vegni dall’altro; in valle Staffora la strada che da Pianostano sale a Negruzzo o quelle che sul versante opposto salgono a Barostro, altra a Ceregate e altra a Samboneto. In val Curone la strada che dal Curone sale a Montecapraro e poi a Caldirola e molte altre. Dai paesi  partivano le strade verso i pascoli e verso i paesi sugli altri versanti. Da Bruggi per andare in valle Staffora si seguiva la strada per il passo della Seppa (che non è quella attuale, salvo in brevi tratti), per andare a Pej la strada che portava al passo della Mula, per andare a Cosola la strada per Bocche di Crenna. Vi era inoltre una miriade di strade minori o meno utilizzate o solo sentieri  che portavano o agli appezzamenti o ai boschi.

Per scendere a valle o comunque andare verso nord la strada più utilizzata era quella di fondovalle,  ma per le altre direzioni  il percorso più breve era quello che seguiva le varie dorsali appenniniche, ma spesso si trattava solo di un sentiero o di una mulattiera. Le varie vie del sale che dalla pianura padana portano in Liguria seguono tutte questo secondo percorso.  Da san Sebastiano attraverso i monti con i muli, in due giorni si poteva arrivare a Genova, seguendo la via  attuale di fondovalle il percorso è notevolmente più lungo, inoltre vi era un altro importante motivo per preferire la via montana: evitare il più possibile i dazi.

Come nel celebre film,  i fiorini da sborsare nella via di fondovalle erano molti. L’alta via tuttavia non consentiva l’uso dei mezzi a ruote e tutte le mercanzie dovevano essere caricate con cura sui basti dei muli. Questo motivo spiega la produzione del carbone da legna e del suo commercio: su basi puramente indicative da 10 quintali di legna si ricavava 1 quintale di carbone, tuttavia vendendo 10 q. li di legna  si incassava quanto vendendo un quintale di carbone. Il costo del trasporto con il carbone era abbattuto e permetteva un piccolo incasso che, unitamente alla vendita di qualche animale e ai lavori stagionali nelle risaie permetteva alle famiglie di avere qualche soldo con cui comprare il sale, l’olio, la stoffa e tutti i piccoli attrezzi agricoli dalla zappa alla vanga al “bagagiu” al “pugarnei”  ai chiodi ecc.

Le carbonaie: girando per i boschi di faggio ancora oggi capita di trovare  dei piccoli piani  larghi non più di 8/10 metri, se muoviamo la terra apparirà ancora oggi qualche piccolo pezzetto di carbone: si tratta di una carbonaia; il luogo veniva accuratamente scelto in un bosco di proprietà con una sorgente o un torrente non molto distante, l’acqua serviva in caso vi fosse stato un incendio e per spegnere la carbonaia quando il carbone era maturo. Si procedeva piantando un palo al centro della piazzola, poi si accatastavano ordinatamente i pizzetti di legna al fianco di questo, si creava una catasta a forma di grande cono che era coperto di terra; si toglieva quindi il palo  e si gettava brace nel buco centrale per accendere la carbonaia.  La carbonaia bruciava per circa una settimana, erano fatti dei fori  sul lato esterno per fare uscire il fumo: per tutta la durata la carbonaia non poteva essere abbandonata. Si costruiva quindi una capanna di frasche nei pressi,  dove  era possibile  rifugiarsi in casa di pioggia o dormire qualche ora; dal paese venivano inviati i viveri tramite i soliti bambini che non di rado dovevano fermarsi anche la notte per dare un aiuto o quando si era fatto troppo tardi per tornare a casa.

L’allevamento di alcune pecore dava alla famiglia la lana che era filata per farne maglie,  “scafaroti” (val Curone), altrimenti detti “pdu” o “souson” ( in valle Staffora). Per tingere la lana in un colore marrone rossiccio si usava la corteccia di “onisu”, si ottenevano altri colori con altre piante ma la gamma era ristretta.

La vita media era attorno ai quaranta anni se non meno, pur essendovi anche allora qualche persona molto anziana,  il dato è dovuto soprattutto all’elevata mortalità infantile.  Si hanno notizie di gravi epidemie che hanno fatto strage come la peste che ha colpito pesantemente Salogni o  la “spagnola” che ha portato lutti in tutte le famiglie.

Sempre preferendo le vie di alta quota molti eserciti sono transitati sui ns. monti da quello di Annibale di cui si ricorda la battaglia nel fiume Trebbia con i Romani, qualcuno riferisce che il pian dell’”Armà” sia stato così chiamato per il passaggio di Annibale. Sicuramente  vi è passato Napoleone, infatti una località porta il nome di  “piana dei francesi”. Nell’ultimo conflitto sono transitati per Bruggi e Salogni truppe tedesche con arruolati dei mongoli .Poco più in là del monte Bagnolo, sulla costa fra la val Curone e la valle Staffora, in luogo detto “Lagujou” vi era una  locanda  utilizzata dalle carovane di muli, questa località era stata scelta per paracadutarvi un gruppetto di soldati inglesi  con una missione di guerra; nella notte  dopo che i soldati erano stati paracadutati nevicò molto e così gli inglesi rimasero bloccati e restarono accampati nel luogo;  la notizia però non restò segreta e così i tedeschi che erano a valle salirono e catturarono gli inglesi e incendiarono l’albergo. Dove allo vi era l’albergo oggi,  vi è un piccolo rifugio di legno. La zona però era diventata rifugio di molti partigiani così un plotone di soldati tedeschi si fermò per parecchio tempo a Negruzzo terrorizzando il paese.

I mulini: come ha molto bene descritto il prof Italo Cammarata nel suo libro, “la valle dei mulini”  lungo i torrenti sono sorti numerosi mulini ad acqua e ogni paese ne conta almeno uno. A Bruggi ancora oggi  ve ne sono  ancora due, uno perfettamente conservato e il secondo, all’ingresso del paese, convertito in segheria. In quest’ultimo, era stata istallata attorno agli anni 30’ una dinamo che produceva corrente per Bruggi e successivamente anche per i paesi vicini. Di giorno la corrente era usata per la segheria e di sera per illuminazione. Dai racconti di mio nonno (classe 1899), sappiamo che a Bruggi vi era una rete elettrica costruita con il concorso di tutti i paesani, ogni famiglia aveva una lampadina da dieci candele; la luce era tremula, i guasti frequenti  ma era stato il primo paese dell’alta valle ad avere la luce elettrica.

Pare che più a monte  del primo mulino anticamente vene fosse uno più antico, il luogo è individuabile ma non ne rimane nulla.  A Salogni  sono ancora visibili i resti di un mulino, posto sul torrente  prima del paese, leggermente a monte, fino a pochi anni fa ancora ben  conservato.  Essendosi poi danneggiato il tetto la struttura sta cadendo.  I resti di un altro sono ancora visibili sotto il cimitero di Salogni, salendo un poco sulla riva opposta del Curone, questo era collegato a Salogni da una mulattiera che scende partendo da sotto il cimitero attuale. Era anche collegato a Bruggi con una mulattiera ripida e tortuosa ma ancora ben riconoscibile che sale fin al “custiò de Marsian”,  agglomerato roccioso posto sopra il paese; un terzo collegamento si inoltra verso Nord e si collega con la mulattiera che porta a Lunassi. La costruzione è antica e potrebbe aver servito in passato tutti e tre i paesi. Scendendo lungo il Curone prima di Fabbrica troviamo ancora quattro mulini, uno sotto Montecapraro, uno sotto Brentassi , andando verso valle troviamo poi il mulino di Frinti, posto sotto l’abitato ancora perfettamente conservato che probabilmente era utilizzato dagli abitanti di Forotondo, con cui è collegato con una delle strade che dal fondovalle raggiungono i paesi e l’ultimo prima dell’inizio della salita in località “Mulino”, ma in Fabbrica e n’è un altro e giù a seguire. Numerosi anche i mulini in valle Staffora da quello, di cui sono ancora visibili i ruderi, sotto Casale Staffora  raggiungibile con una mulattiera,  probabilmente il mulino veniva utilizzato anche dal paese di Samboneto  tramite altra mulattiera. Pochi chilometri a valle e troviamo il mulino di Pianostano, che serviva Negruzzo,  sempre scendendo lungo lo Staffora quello di Lago, frazioncina lungo lo Staffora di cui restano solo ruderi, altri ne seguono più a valle. Troviamo numerosi mulini anche nella vallata che, partendo dall’Antola arriva nel Borbera. Il più a monte è probabilmente quello situato sotto Reneuzzi con cui e collegato da una mulattiera che raggiunge anche Campassi. Più a valle all’ingresso della valle dei Campassi vi è ancora un mulino che è collegato tramite mulattiera sia con Campassi che con Vegni oltre che con la strada di fondovalle di cui si vedono ancora brevi tratti sul fianco destro dell’Agnellasca. Sempre lungo questa strada poco a monte sul lato destro, sotto l’abitato di Agneto troviamo i ruderi di altro mulino, ancora più a valle alla confluenza dell’Agnellasca  con il Carreghino un poco a monte lungo quest’ultimo, troviamo il mulino del Pio, struttura ancora ben conservata. Altri ne seguono a valle. Anche la val Boreca è ricca di mulini a partire da quello di Pej. Da vedere è certamente il mulino di Suzzi situato in un angolo di rara bellezza sul lato di una roccia che fa da cascata, con sottostante laghetto.  Questo mulino ha una caratteristica rara, unica localmente, la ruota che muove le macine, con tazze di legno, è posta all’interno del mulino ed è  orizzontale; il mulino è ancora visibile ma temiamo che avrà vita breve causa la caduta del tetto. Serviva certamente l’abitato di Suzzi ma è raggiungibile tramite mulattiera anche da Bogli. Più a valle sulla sponda sinistra del Boreca vi sono ancora le mura di un altro mulino raggiungibile sia da Bogli sia da Pizzonero, ancora più a valle sotto l’abitato di Belnome vi era un mulino collegato sia a questo sia, tramite una strada scavata sul lato di una scarpata, a Tartago, ancora altri più a valle.  A giudicare dal numero parrebbe che gli abitanti avessero molte granaglie da macinare, bisogna però considerare che non erano tutti attivi contemporaneamente, inoltre quando tutta la zona era sotto la giurisdizione dei Doria di Genova, dopo la congiura dei Fieschi, godeva di una parziale autonomia e questo potrebbe giustificare i numerosi mulini.

L’istruzione: fino a metà 800 l’analfabetismo era la norma, poi sono sorte specialmente nelle canoniche, tenute dai locali sacerdoti  primitive scuole che avevano lo scopo di insegnare almeno a scrivere il proprio nome,  in seguito a leggere e scrivere e i numeri. Nonostante la numerosa popolazione, le scuole (elementari) arriveranno solo dopo il 1920 e dalle località più a valle giunsero le maestre e i maestri. Si trattava tuttavia di multiclassi dove convivevano gli alunni della prima elementare e quelli della seconda e terza. Quarta e quinta arriveranno in seguito e in molti paesi  non arriveranno mai. Le multi classi,  fino agli anni 60’, erano diffuse anche nei paesi della collina.

Il prete: per alcuni secoli la figura del prete, nei vari paesi era la persona di riferimento in quanto spesso era una delle poche persone che avevano studiato, si ricorreva a lui per farsi scrivere o leggere lettere,  per consigli medici, legali ecc. Si racconta di un ragazzo non molto intelligente che era andato a fare il servizio militare, il medico del distretto con molto cattivo gusto aveva scritto sul congedo “riformato per cretineria”, dopo aver a lungo studiato la parola, la sera tutta la famiglia era andata dal prete a farsela spiegare. In  ogni parrocchia era redatto ogni 12 anni, talvolta anche meno, una specie di censimento  “Lo stato delle anime”; questi documenti ci hanno permesso di conoscere l’andamento demografico dei vari paesi, la composizione delle famiglie, dati sulla mortalità, le migrazioni delle famiglie e altri dati fondamentali  per ricostruire la  struttura dei paesi  nei secoli scorsi. Al sostentamento del religioso provvedeva tutta la comunità, vi era una specie di tassazione sui raccolti e una parte andava alla Chiesa, si trattava di legna da ardere, grano uova ecc. La parrocchia di Bruggi fu istituita nel 1640 ca. staccandosi da quella di Salogni. Estremamente rigide erano le regole religiose e chi non andava in Chiesa veniva additato al pubblico disprezzo. Spesso nelle varie parrocchie oltre al prete vi era la figura della perpetua,  di solito una parente  anziana del prete ma non sempre era così e le appetitose storielle correvano di valle in valle.

Le campane: per secoli il tempo era segnato dal battere delle ore sulle campane, nessuno aveva l’orologio, solo dopo il 900 si sono diffusi (ma non troppo in quante per l’epoca estremamente costosi) gli orologi da tasca, ma era un lusso da sfoggiare la domenica andando a messa;  A Bruggi ricordiamo “Luisei di San” uno di tre fratelli non sposati che vivevano insieme, sfoggiava con  soddisfazione un orologio da taschino  legato  ad una catenella al gilet, tutte le volte che lo si incontrava gli si chiedeva “Luisei che ura cl’è?” solo per vedere il rituale: si apriva la giacca, seguiva la catena estraeva la “mustra” l’allontanava per vederla bene e sentenziava l’ora. Dai monti e dalle terre si sentivano le campane, spesso anche quelle dei paesi vicini non sempre concordanti; le ore suonavano 2 volte a distanza di ca. 5 minuti; veniva suonata anche la mezz’ora che era data dalle ore suonate si di una campana seguite da un tocco dato con una campana con il suono più acuto. La posizione del sole sui vari monti indicava la stagione; più importante del sole era la luna, tutte le varie attività agricole dovevano essere fatte con la luna giusta.

I matrimoni: i vari paesi erano comunità abbastanza chiuse e la maggior parte dei matrimoni si avevano fra giovani del paese, dato il forte campanilismo i ragazzi che si trovavano un fidanzato e/o fidanzata in un paese rivale spesso avevano vita dura nell’incontrarsi, un po’ per causa dei genitori un po’ per gli spasimanti locali. Purtroppo molti erano i matrimoni fra consanguinei e si racconta che per questo motivo a Fabbrica Curone vi fossero, più che in altre parti, persone gobbe o con minorazioni fisiche. Vi erano inoltre paesi come ad esempio Bruggi e Negruzzo, Bruggi e Salogni  in cui i matrimoni erano più frequenti, nel secondo caso per la vicinanza e nel primo in quanto  i ragazzi si incontravano sui pascoli confinanti; anche su questo argomento le storie che si raccontano sono colorite; Si racconta di giovane di Bruggi sposatosi a Negruzzo con una ragazza molto autoritaria che un giorno si sfogò e disse “ ho fioji  al lasu per testameintu… da mia piò e vachè  dra Vulpoja e e done d’nigrusu”. Ci si sposava molto giovani e frequentemente si andava a vivere in casa dello sposo in cui si costruiva prima una nuova stanza, poi un’altra. Nei paesi  tutti era parenti con tutti, chi più chi meno. Vi erano molti vedovi o vedove perché si moriva anche molto giovani per  le malattie più banali (oggi!) come la polmonite, infezioni, ma anche per i mali di oggi come i tumori che allora avevano un altro nome “ e brut mo’” o per gli ictus “ u ghè gniu un culpu”.  I vedovi/e si trovavano a dover allevare la prole ma le famiglie allargate di allora consentivano un aiuto reciproco importante. La ragazza non maritata a 22-23 anni era già considerata una vecchia zitella, intervenivano allora i genitori a trovarle marito, volente o nolente!  In ogni paese vi era  la figura del “Caretoun” in realtà questo era il nome che si usava più a valle, cui ci si rivolgeva se  l’impresa di trovare marito/moglie diventava troppo ardua, in alternativa l’onnipresente figura del prete. Spesso i giovani,  e molto giovani, erano all’oscuro di tali maneggi e avevano la notizia quando tutto era stabilito e non si poteva rifiutare; Altre volte vi erano interessi  economici come unire due proprietà ecc.

Tony un giovane di Negruzzo un giorno incontra nel paese una ragazza che vi mancava da un anno in quanto era stata mandata “a servizio” a valle e gli chiede “ e tì chsè cat foj a cà? “ ; questa risponde “ a son ghia a spusame”; ribatte  “e con chi?” – “ con Vui” fu la risposta!

Le storie di tradimenti coniugali  e incontri  segreti,  come in tutto il mondo,  si sprecano, fortunatamente non vi era ancora il test del DNA, ma vi era invece il Matrimonio Riparatore, quando una ragazza restava incinta un marito si doveva trovare velocemente che fosse il colpevole o no…. e molti erano i figli settimini.

Le feste. Essendo rare le occasioni di divertirsi, mangiare a sazietà e ballare, quando si presentavano venivano sfruttate a pieno. Le  feste erano quelle religiose, oltre il natale e la pasqua quella più attesa era la festa patronale: S. Rocco a Bruggi, S. Bartolomeo a Negruzzo, la Madonna della neve a Salogni, la Madonna della Guardia a Montecapraro. I festeggiamenti di solito duravano più giorni e numerosi erano i commensali in quanto anche dai paesi vicini giungevano i parenti che non di rado pernottavano in quanto alla sera  si ballava con il piffero e la fisarmonica che aveva sostituito nel secondo 800 la cornamusa. In molti paesi vi era un’aia attrezzata a tale scopo, di solito di forma circolare con al centro o un paolo o un albero; su di un lato un piccolo palco per i suonatori e intorno un sedile. I lati esterni del ballo venivano chiusi con frasche e  il tutto veniva coperto da un telone qualora avesse piovuto. Già nel pomeriggio i suonatori facevano sfoggio di bravura per dare il meglio alla sera dalle 21 fino a oltre mezzanotte. Gruppi di ragazzi giungevano dai paesi vicini “a caccia” e non rare erano le liti con i rivali locali. Dopo mezzanotte si riprendeva il sentiero che attraverso i boschi riportavano al proprio paese, spesso brilli.

Ancora oggi a Cartasegna a sinistra della via centrale nella parte bassa è visibile una di queste balere con palo centrale; altra è ancora utilizzata ad agosto, rispettando la tradizione, a Pizzonero, sopra l’abitato al cui centro troviamo un enorme ippocastano, la chiusura è fatta rigorosamente con rami e foglie.

I balli erano i vari brani tipici dei  pifferai dalle varie monferrine, alessandrine, piane e soprattutto la giga. A fine 800, ma soprattutto nel secolo scorso si è sviluppata, sul territorio delle 4 provincie (Alessandria, Pavia, Piacenza e Genova) una  tradizione musicale legata al piffero che ancora oggi sopravvive.  Intere generazioni hanno ballato al suono del piffero.

 Il campanilismo era estremo:  gli abitanti di ogni paese avevano un soprannome usato per  insultarsi e stuzzicarsi. Per fare un esempio di abitanti di Bruggi venivano chiamati  “bèchi”, quelli di Salogni “stangou” e ogni paese aveva il suo nome.

Rigoroso era il rispetto e la partecipazione alle ricorrenze religiose in particolare quelle che parlavano  di digiuno, di mangiare di magro il venerdì ecc. si faceva di necessità… fede. Anche allora si praticavano pellegrinaggi  non Fatima o Lourdes, la meta cui quasi tutti sono andati almeno una volta era la chiesa di Montebruno nell’alta val Trebbia dove vi è la statua della madonna nera. Abbiamo raccolto i racconti dei vari pellegrinaggi sia in val Curone che in val Staffora; per percorrere il tragitto di ca 20-30 km, tutto su sentieri, occorrevano dalle 8 all 12 ore, si partiva dai vari paesi il mattino verso capanne di Cosola, Cavalmurone,  Legnà, Carmetto, Carmo Capanne di Carrega, Capanne del Romano; Qui si seguiva il crinale a sinistra del Brugneto, quindi si scendeva in Trebbia a Montebruno verso sera;  i pellegrini dormivano sulle panche della chiesa e la mattina dopo la strada del ritorno.

Ora si sente parlare della Madonna di Montebruno solo nei racconti degli anziani. Anche i nostri monti però hanno avuto una apparizione Mariana, poco sopra Casanova Staffora poco più a monte della strada per Cegni, la coreografia è quella collaudata: Una signora luminosa dal vestito bianco, una pastorella, una località isolata un messaggio enigmatico.  L’evento ha avuto una eco nazionale, attirando in loco molti pellegrini, tutti gli anni l’evento è celebrato ma nel secolo scorso da tutti i paesi delle valli vicine la ricorrenza  era molto sentita, i miei genitori si sono conosciuti in una di queste feste.

Il dialetto: Ogni paese aveva il suo, anche frazioni molto vicine come ad esempio Bruggi e Salogni  avevano inflessioni dialettali diverse dalle quali spesso si individuava la provenienza di chi stava parlando, oltre il Giarolo e l’Ebro la parlata era ed è ancora oggi simile a quella ligure. Le differenze fra i vari dialetti erano molto marcate tanto da considerarle delle vere e proprie lingue così che quando si scendeva a vallee si doveva parlare italiano spesso si avevano seri problemi. Ancora negli anni 50 e 60 molti anziani non riuscivano a parlare un italiano scorrevole. Considerando il diffuso analfabetismo, la quasi assenza di libri e giornali, l’unica forma di diffusione delle notizie era quella verbale. Le novità venivano raccontate dai mulattieri che spesso stavano giorni lontani da casa da chi era andato ai risi e da chi era sceso a valle, la divulgazione occupava i giorni seguenti e spesso dalla partenza all’arrivo la notizia si evolveva.

La superstizione era molto diffusa e le notizie di fatti fantastici erano numerose, spesso si tendeva a rendere le storie più paurose per spaventare i bambini. La credenza più comune era quella dei luoghi dove “us ghe fa sintì” cioè dove si sentivano rumori o voci, uno di questi luoghi era il fosso  a valle di Montecapraro; chi doveva passarvi quando era buio  non era del tutto tranquillo, altri posti sono sparsi  nei vari paesi. Si racconta di un giovane che scendendo verso Bruggi dalla strada delle fraccia abbia sentito dei rumori dietro di sé che sembravano sempre più vicini, si racconta che ha iniziato a correre fino a quando in fondo alla strada ha attraversato tre ruscelli e allora i rumori sono scomparsi. Come alternativa ai ruscelli qualcuno dice tre incroci di strade. La realtà è meno romanzesca, passato il terzo rio il ragazzo di fatto era uscito dalla vallata dove gli echi  di rumori e voci provenienti da altri paesi  rimbalzavano. Soprattutto in estate quando in altro paese distante vari km vi è una festa,  e si sta camminando in una gola stretta, può capitare di sentire la musica come  provenisse da pochi metri. Altri dicono di aver sentito colpi di una falce battuta su di un sasso o rumori di catene, rumori che potrebbero essere l’eco di sassi caduti in una gola molto distante. Un’altra leggenda di fantasmi, questa volta più a valle, in località Baiarda vicino a Garbagna:  vi era una casa situato circa a 50 metri dalla provinciale dove da una certa data in poi di notte si sentivano ululati, fischi di vento, rumori di ferraglia. Dopo pochi mesi la notizia si era diffusa,  e tutti sapevano della casa dei fantasmi. Anche in questo caso la realtà  è meno “appetitosa” e lascia un senso di delusione: nella casa di prima era stato costruito un condotto fognario in tubi di cemento che dalla casa attraversavano prima un campo poi passavano sotto la strada provinciale e infine finivano nel  Grue. I tubi erano piuttosto grandi quindi quando sulla strada provinciale transitava un carro, un camion, un trattore il rumore  veniva trasmesso dalle correnti presenti lungo i corsi d’acqua, all’interno della casa e la dimensione dei tubi faceva da amplificatore.

I nomi e i cognomi: le varie comunità tendevano a restare chiuse, i matrimoni spesso erano fra persone dello stesso paese che, alla lunga, erano tutte un po’ parenti; questo ha fatto si che, nei vari paesi, i cognomi  delle varie famiglie si sono mantenuti gli stessi per secoli. Oggi se sentiamo parlare di Tamburelli, Pelle, Ferrazza o Scapolla sappiamo che i nonni o gli avi erano di Bruggi; se sentiamo Tambornini di Salogni; Fittabile, Dallocchio di uno degli altri paesi dell’alta valle; Brignoli o Burrone provengono da Negruzzo ecc.

Data l’usanza di  “rnuò” (rinnovare) cioè di dare ai nati i nomi dei nonni o altri parenti stretti, anche la cerchia dei nomi risulta avere poche variazioni. Addirittura i soprannomi  venivano tramandati di padre in figlio ( Siveron il padre Sivirei il figlio o Masciu il padre e Mascin il figlio)  e di molti si è perso il significato originario spesso legato ad un difetto fisico ad un evento, ad un accrescitivo o diminutivo ecc.

In uno dei censimenti effettuato dal parroco di Bruggi nel 1846, risultano riportati oltre ai nomi molti soprannomi, possiamo sorprendentemente notare che molti sono gli stessi ancora in uso ancora nel 1960. Proprio perché le origine dei soprannomi sono antiche spesso non hanno alcuna attinenza con il nome anagrafico, nessuno era conosciuto con questo;  per trovare Rossi  Ernesto dovevi chiedere di “Clemente”.

Anche se all’epoca si viveva con poco, a partire dalla fine dell’800’ è iniziata l’emigrazione fenomeno che ha interessato tutto l’appennino. I motivi sono molteplici riassumibili con la ricerca di una vita migliore. La popolazione era molto cresciuta rispetto al poco che potevano dare i piccoli terreni coltivi, nelle città era iniziata l’industrializzazione con la nascita di numerose fabbriche che richiedevano manodopera, le condizioni di lavoro erano spesso molto dure ma il modesto salario era tuttavia un miraggio. Qualcuno era emigrato in America e scriveva di gente che aveva fatto “fortuna”, racconti che avevano molta più presa di quelli che parlavano di miseria. I nostri paesi conoscevano già una migrazione stagionale per le campagne del riso, la cui produzione ebbe un’impennata dopo la costruzione del canale Cavour, quindi già nel secondo 800’, ma una molto più variegata e vasta era alle porte.  Da Bruggi alcune famiglie sono emigrate a fine 800 verso la Germania per lavorare alle miniere carbonifere, poi, appena messo da parte un gruzzoletto sono tornate  con i bambini che parlavano tedesco. Dopo il 1920 molti giovani del paese hanno clandestinamente valicato il confine di Modane per cercare lavoro in Francia nella costruzione della ferrovia Lione Torino che richiese molta manodopera;  spesso venivano presi e rispediti al paese ma appena risparmiati i soldi del viaggio ci riprovavano, stiamo scrivendo di 100 anni fa ma l’argomento è tremendamente attuale. Un altro itinerario, almeno per Bruggi, era la Svizzera oltre naturalmente la America ( o come si diceva allora parto per la Merica).  Non abbiamo notizie di grosse fortune fatte dai nostri paesani, qualcuno è ritornato con un gruzzoletto con cui magari ha acquistato un terreno o si è costruito una bella casa, sicuramente hanno portato  molta esperienza. La migrazione maggiore, ancora in essere oggi, è quella verso valle. Qualcuno è sceso nelle città, dove stavano aprendo numerose fabbriche, altri, spaventati dalla città si sono fermati sulle colline dove hanno sviluppato le poche conoscenze agricole che avevano. La forma più comune di contratto agrario allora era la mezzadria, cioè la metà del raccolto andava al conduttore del fondo e l’altra al proprietario, contratto molto vantaggioso per quest’ultimo e poco per il conduttore. Da considerare inoltre che i terreni di solito fossero quelli scartati dagli agricoltori locali; l’epoca era fra il 1920 e il 1950, la generazione successiva era scesa in città.

La vita in un paese di montagna era certamente dura, non c’erano stipendi o pensioni, l’unico denaro che entrava era quello per la vendita di un animale, legna o carbone, o per le campagne ai risi, e comunque era molto poco.   Non vi era un’assistenza sociale come la intendiamo oggi,  malgrado questo, all’interno di ogni comunità, nonostante le rivalità, i litigi e le mille beghe, si sviluppavano comportamenti sociali molto  più efficaci di quelli che oggi conosciamo.  La prima comunità era la famiglia che, tutti insiemi, allevava i piccoli, curava e nutriva gli anziani e gli inabili. I coniugi spesso accoglievano i figli o le sorelle e i fratelli rimasti vedovi creando così famiglie numerose, quel poco da mangiare era diviso fra tutti. Il Paese era il secondo centro di solidarietà; qualora un incendio avesse distrutto  un fienile tutte le altre famiglie nei limiti delle loro possibilità portavano fieno e legna a quella che aveva subito l’evento;  quando moriva un capo di bestiame,  questo veniva macellato e tutti acquistavano un po’ di carne per dare un aiuto al proprietario. Anche fra paesi vicini forte era la solidarietà, quando a metà 800’ un incendio distrusse quasi totalmente Bruggi, dai paesi vicini sono state portate coperte, viveri e soprattutto braccia per ricostruire. Come la storia ci insegna l’aiuto ai bisognosi,  viene soprattutto da altri poveri.

I divertimenti dei bambini, erano giochi poveri, i giocattoli erano carrettini, fatti dai genitori, le cui ruote erano fatte con le scatole del lucido da scarpe, la lippa e poco altro.  Chi ha memoria di allora ci dice, all’unisono, che i bambini erano più felici; la stessa cosa che ci dice chi è stato fra i bambini poveri dell’Africa  e  questo dovrebbe farci riflettere!